Cos’è la Sovranità?

Cos’è la sovranità?

di Alain de Benoist – 29/10/2007

Il concetto di sovranità è probabilmente uno dei più complessi della scienza politica: se ne sono potute dare decine di definizioni differenti, alcune delle quali sono totalmente contraddittorie1. Tuttavia, in linea di massima, la “sovranità” rinvia a due accezioni principali. L’una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quest’autorità. Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolare come il mezzo dell’indipendenza, ossia della libertà d’azione di una data collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, ci si situa nella seconda. Le nozioni di potere e di legittimità si trovano così associate di primo acchito a quella di sovranità.

Su scala internazionale, sovranità significa che niente può essere imposto dall’esterno ad uno Stato senza il suo consenso. In quest’ottica, le norme internazionali sono esse stesse fondate sul principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati: il diritto internazionale è allora un diritto di semplice giustapposizione, escludente ogni ingerenza o interferenza, e che si limita a fissare regole accettate da tutti. Tuttavia, questa sovranità è eminentemente relazionale, se non dialettica, perché la sovranità di uno Stato non dipende soltanto dalla sua volontà di essere sovrano, ma anche dal grado di sovranità che può preservare di fronte alla sovranità degli altri. Si può dire, da questo punto di vista, che la limitazione della sovranità di uno Stato deriva già logicamente dall’esistenza di diversi Stati sovrani2.

Sarebbe tuttavia un grave errore credere che la sovranità sia possibile solo nel quadro di uno Stato di tipo classico, cioè di uno Stato-nazione, come affermano dei sostenitori della scuola “realista” come Alan James e F.H. Hinsley o dei teorici neomarxisti come Justin Rosenberg3. Un tale errore equivale a confondere lo Stato e la nazione, mentre le due cose non vanno necessariamente di pari passo, e d’altra parte ad immaginarsi che la sovranità è apparsa solo dal momento in cui se ne è data una chiara formulazione nel quadro di una teoria dello Stato. L’affermazione di John Hoffman secondo la quale “la sovranità costituisce un problema insolubile finché ci si ostina ad associarla allo Stato”4 è molto più vicina alla verità. Dal fatto che la nozione di sovranità non sia stata pienamente concettualizzata prima del XVI secolo, non consegue che essa non esistesse in precedenza in quanto realtà politica. Non consegue nemmeno che non si possa concettualizzarla altrimenti.

Aristotele, per non citare che lui, non dice una parola sulla sovranità, ma il solo fatto che insista sulla necessità di un potere supremo mostra che l’idea non gli era estranea, perché ogni potere supremo – kuphian aphen presso i greci,summum imperium presso i romani – è per definizione sovrano. La sovranità non è, in effetti, legata né a una particolare forma di governo, né a un particolare tipo di organizzazione politica. Essa è invece inerente a ogni forma di esercizio del comando politico.

Il problema della sovranità è riapparso alla fine del Medioevo, non appena si è posta la questione di sapere non più soltanto qual è la migliore forma possibile di governo o quali debbono essere i fini dell’autorità detenuta dal potere, ma cosa ne è del legame politico che unisce un popolo al suo governo, ossia come deve definirsi in seno a una comunità politica il rapporto tra governanti e governati.

A questa domanda ha cercato di rispondere il magistrato francese Jean Bodin (1520-1596) nel suo celebre libro La République, pubblicato nel 1576. Bodin non ha inventato la sovranità, ma è stato il primo a farne l’analisi concettuale e a proporne una formulazione sistematica. Egli non si è dedicato a questo compito a partire dall’osservazione di uno stato di fatto, ma nel contesto di una duplice rivendicazione: desiderio di restaurazione dell’ordine maltrattato dalle guerre di religione, e richiesta di emancipazione da parte dei re francesi di fronte a ogni forma di vassallaggio verso il papa e l’imperatore. Perciò la dottrina di Bodin costituirà naturalmente l’ideologia dei nascenti regni territoriali, che cercano di emanciparsi dalla tutela dell’Impero ancorando al livello dei principi la trasformazione dei rapporti di potere risultante dal dominio dei feudatari ad opera del re.

Bodin inizia giustamente col ricordare che la sovranità (majestas), di cui fa la chiave di volta di tutto il suo sistema, è un attributo del comando, che costituisce esso stesso uno dei presupposti del politico. Come la maggior parte degli autori del suo tempo, egli afferma ugualmente che un governo è forte solo se è legittimo e sottolinea che la sua azione deve sempre restare conforme a un certo numero di valori determinati dalla giustizia e dalla ragione. Ma egli comprende bene che tali considerazioni non bastano a rendere conto della nozione di potere sovrano. Per questo dichiara che la fonte del potere proviene dalla legge. La capacità di fare e annullare le leggi – dice – è ciò che appartiene in proprio la sovrano, ciò che costituisce la sua impronta: potere di legiferare e potere di governare sono identici. La conclusione cui perviene Bodin è radicale: non potendo essere assoggettato alle sue stesse decisioni o decreti, il principe è necessariamente al di sopra della legge. È la formula che si trovava già presso i giureconsulti romani: princeps solutus est legibus. “Bisogna”, scrive Bodin, “che i sovrani non siano in nessun modo soggetti ai comandi altrui… Perciò la legge dice che il principe è sciolto dal potere delle leggi… Le leggi del principe non dipendono che dalla sua pura e semplice volontà”5. È dunque sovrano il potere che un principe possiede di imporre leggi che non lo legano, potere per l’esercizio del quale non ha nemmeno bisogno del consenso dei suoi sudditi – il che vuol dire che la sovranità è totalmente indipendente dai sudditi ai quali impone la legge. Nello stesso senso, Richelieu dirà più tardi che “il principe è padrone delle formalità della legge”.

Per questa ragione di potere legislativo, prosegue Bodin, l’autorità suprema è e non può che essere unica e assoluta, di qui la sua definizione della sovranità come “potere assoluto e perpetuo di una repubblica”6, ossia come potere illimitato nell’ordine degli affari umani. La sovranità è un potere assoluto in questo, che il sovrano non è sottomesso alle leggi, ma al contrario le promulga e le abroga a suo piacimento – e viceversa, la facoltà di fare la legge esige che la sovranità sia assoluta (essa “non si può annullare in commissione”, dice Bodin), perché il potere di legiferare non si può dividere. Tutte le altre prerogative politiche del sovrano dipendono da questa affermazione iniziale. Se ne deduce che la caratteristica fondamentale della sovranità è che conferisce al principe, che non ha altra regola che la propria volontà, il potere di non essere legato o dipendente da nessuno, non essendo il suo potere né delegato, né temporaneo, né responsabile di fronte a chiunque. Perché se cominciasse a dipendere da un altro, all’interno o all’esterno, non avrebbe più il potere di fare la legge. Non sarebbe più sovrano.

La sovranità bodiniana è dunque totalmente esclusiva: ponendo il re come legislatore unico, conferisce allo Stato una competenza originaria e illimitata. Per conseguenza, uno Stato sovrano si definisce come uno Stato il cui principe non dipende che da se stesso. Questo implica che la nazione si costituisca come Stato ed altresì che si identifichi a questo Stato. Per Bodin, un paese può certo esistere con la sua storia, la sua cultura, la sua identità o i suoi costumi, ma esiste politicamente solo nella misura in cui si costituisce come Stato – e come Stato sovrano. La sovranità diventa allora il potere assoluto che fonda la repubblica come entità politica a sua volta unica e assoluta. Lo Stato deve essere uno e indivisibile, poiché dipende interamente dal monopolio legislativo detenuto dal sovrano. Le autonomie locali possono essere ammesse solo nella misura in cui non riducono l’autorità del principe. In realtà, saranno sempre più limitate. Lo Stato diventa così una monade, mentre il principe si trova “separato dal popolo”, ossia posto in un isolamento che confina con il solipsismo.

Questa nuova teoria è evidentemente fondamentale. Da una parte, dissocia società civile e società politica, dissociazione di cui il pensiero politico farà grande uso a partire dal XVIII secolo. Dall’altra parte, getta le basi del moderno Stato-nazione, caratterizzato dalla natura indivisibile e assoluta del suo potere. Con Bodin, la teoria politica entra a pieno titolo nella modernità.

La sovranità, secondo Bodin, è soprattutto inseparabile dall’idea di una società politica che abolisce le appartenenze e le fedeltà particolari, e s’instaura sulle rovine delle comunità concrete. Implicitamente, il lui il legame sociale è già ricondotto a un contratto governativo che mette in gioco esclusivamente degli individui, che cioè elimina ogni mediazione tra i soci e il potere. Questa soluzione di continuità tra le comunità prepolitiche e l’unità politica propriamente detta sarà realizzata dalla monarchia assoluta, poi dallo Stato-nazione, definendosi quest’ultimo anzitutto per la sua omogeneità, sia essa naturale (omogeneità culturale o etnica) o acquisita (per relegazione nel privato delle differenze collettive). Inoltre, per il suo implicito egualitarismo, dovuto al fatto che il modello riposa su un legame diretto e incondizionato tra governanti e governati, la concezione bodiniana già annuncia la ridefinizione del popolo come composto unicamente da atomi individuali, posti tutti a uguale distanza dal potere sovrano.

Non è difficile vedere il fondamento religioso di questa dottrina: il modo in cui Bodin concepisce il potere politico non è che una trasposizione profana della maniera assolutista in cui Dio esercita il suo, e in cui il papa regna sulla cristianità, e questo quand’anche rifiutasse la concezione medievale che faceva del potere una semplice delegazione dell’autorità di Dio. In lui, infatti, il principe non si accontenta più di detenere un potere “di diritto divino”. Attribuendosi il potere di fare e disfare le leggi a suo piacimento, egli agisce come Dio. Egli forma da solo un tutto separato, che domina il corpo sociale proprio come Dio domina il cosmo. Lo stesso dicasi del tema dell’assoluta rettitudine del sovrano, che non è che una trasposizione nell’ambito politico del Dio cartesiano che può tutto ciò che vuole, ma non può volere il male. Dalla sovranità, si passa allora surrettiziamente all’infallibilità. Bodin, in altri termini, desacralizza la sovranità togliendola a Dio, ma subito la risacralizza in forma profana: parte dalla sovranità monopolistica e assoluta di Dio per sfociare nella sovranità monopolistica e assoluta dello Stato. Tutta la modernità nascente risiede in questa ambiguità: da un lato, il potere politico comincia a secolarizzarsi; dall’altro, il sovrano, ormai identificato con lo Stato, diventa un persona dotata di un potere politico quasi divino – conferma esemplare della tesi di Carl Schmitt secondo la quale “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”7.

È qui importante notare che la teoria bodiniana della sovranità non implica un tipo di regime particolare. Bodin preferisce la monarchia perché il potere vi è naturalmente più concentrato, ma sottolinea che l’esercizio della sovranità come egli l’intende è ugualmente compatibile con il potere di un’aristocrazia come con la democrazia, benché il rischio di una divisione del potere vi sia più grande.

È ugualmente significativo che l’emergere di una sovranità indivisibile, escludente ogni limite e controllo, vada di pari passo con un intervento massiccio di giuristi al servizio dello Stato. Erede diretto dei legisti del XIII secolo, le cui opere permisero alla monarchia capetingia di imporsi ai feudatari, Bodin riferisce, come si è visto, il potere politico alla capacità di fare la legge. Egli aggiunge che il sovrano, quand’anche non possa essere legato dalle leggi che promulga, può invece esserlo da un contratto che avesse sottoscritto o con un potere straniero nel caso di un trattato, o con l’insieme dei suoi sudditi da ciò che oggi si chiama una Costituzione. “Questo”, nota Julien Freund, “porta in definitiva Bodin a considerare la sovranità non più come un fenomeno di potere e di forza, ma di diritto”8. Ciò permetterà a certi liberali di riferirsi a lui.

Il problema della sovranità si pone differentemente in Thomas Hobbes (1588-1679). Mentre nella teoria di Bodin l’idea di sovranità assoluta è esplicitamente rivolta contro i resti di potere feudale, il che implica rendere l’autorità del principe indipendente dal consenso dei suoi sudditi, essa risulta in Hobbes da una riflessione sul carattere distruttore dello “stato di natura”. Hobbes, come si sa, è il primo a far intervenire un contratto sociale sulla base del calcolo razionale degli individui. Egli sostiene che questi ultimi hanno deciso di entrare in società e di porsi sotto l’autorità di un principe per mettere fine alla “guerra di tutti contro tutti” che si presume caratterizzare lo stato di natura. Hobbes fa dunque intervenire il consenso dei primi soci, ma le conclusioni che ne trae vanno ancor più oltre quelle di Bodin. Mentre quest’ultimo conservava una certa dualità tra il sovrano e il popolo, Hobbes la fa completamente sparire. Entrando in società, gli individui accettano, infatti, contrariamente a ciò che si vedrà in Rousseau, di abbandonare ogni sovranità per trasferirla interamente al principe. Pagando la sua sicurezza al prezzo dell’obbedienza, il popolo si dissolve così nel sovrano, la cui autorità si trova assimilata alla somma delle volontà individuali di cui è investito. Lo Stato, potremmo dire, “inghiotte” il popolo (in opposizione al sistema di Rousseau dove, con la volontà generale, è piuttosto il popolo che “inghiotte” lo Stato).

Il sovrano non soltanto non è tenuto alla reciprocità del contratto, poiché non lo ha sottoscritto, ma ricevendo il suo potere dalla volontà razionale di tutti, ha il diritto di esigere da ciascuno un’obbedienza totale. Poiché la sua legittimità deriva dal fatto che gli altri soci hanno volontariamente abdicato alla loro sovranità a suo vantaggio, egli non dipende da nessuno e si situa dunque al di sopra dei diritti e delle leggi. Il popolo, insomma, non gli si può opporre perché, non dovendo niente a nessuno, non può essere spossessato della sua autorità. Ancor meglio, egli è il solo la cui illimitata libertà procede dallo stato di natura nel quale è restato. La sua sovranità è dunque ugualmente indivisibile e assoluta. Come in Bodin, la sovranità è posta come profondamente unitaria e identificata allo Stato, ogni ripartizione o frammentazione del potere essendo interpretata a priori come causa di instabilità e divisione politica9.

Beninteso, c’è qualcosa di paradossale in questa moderna formulazione della sovranità. Sia Bodin sia Hobbes si sono, infatti, preoccupati di distinguere potere tirannico e potere sovrano, ma hanno potuto farlo solo appellandosi a nozioni che costituiscono oggettivamente una limitazione della sovranità, anche se definiscono quest’ultima come indivisibile e assoluta10. Questa limitazione può risiedere nella necessità per il principe di rispettare certe leggi naturali o divine. Può anche risiedere nella finalità del potere (servire il bene comune senza attentare ai diritti dei membri della società) o ancora nei criteri di legittimità del suo esercizio (sia che questo potere rappresenti la legge in Bodin, sia che risulti dal consenso individuale in Hobbes). Questo catenaccio, tutto teorico, salterà rapidamente a causa della dinamica stessa dell’assolutismo.

Un’altra contraddizione dipende dal fatto che in Bodin, nella misura in cui la sovranità costituisce una giurisdizione illimitata, si suppone che la comunità politica formi un tutto che riunisce dirigenti e diretti, mentre d’altra parte è posta una netta distinzione tra i soci e l’istanza statale, distinzione senza la quale il principe non potrebbe promulgare le sue leggi in maniera sovrana. Ora, è chiaro che più lo Stato è autonomo, più l’esercizio della sovranità diventa problematico. Viceversa, se la sfera pubblica possiede sulla sfera privata (o “società civile”) un’autorità illimitata, la distinzione tra queste due sfere diventa del tutto relativa. Questa contraddizione creerà in seguito un crescente fossato tra sovranità statale e sovranità popolare.

La concezione della sovranità caratteristica della monarchia assoluta è stata interamente conservata dalla Rivoluzione francese, che si è limitata a riferirla alla nazione. Di qui la difficoltà contro cui la Repubblica si è sempre scontrata per conciliare i primi due articoli della Dichiarazione dei diritti, che affermano il primato dei diritti universali dell’individuo, con il terzo, che fa della nazione la sola autorità avente la competenza della sua competenza: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione; nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non ne emani espressamente”.

Uno dei meriti del libro recentemente pubblicato da Ladan Boroumand11 è di aver stabilito, con un esame minuzioso dei testi, non soltanto la continuità dell’idea di sovranità assoluta dall’Ancien Régime alla Rivoluzione, ma anche che l’affermazione rivoluzionaria del primato della sovranità nazionale non risale al 1792 o 1793, ossia all’ascesa del partito giacobino, ma agli stessi inizi del movimento. Il momento-chiave a questo proposito si situa nella decisione unilaterale del terzo stato di avviare, nel maggio 1789, il processo di verifica dei mandati dei deputati, decisione che provoca il processo di trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale e fa accedere i deputati alla sovranità politica.

La discussione che allora si avvia tende a sapere se il terzo stato deve costituirsi in Assemblea del popolo o in Assemblea della nazione. La mozione di Siéyès che invita la borghesia a proclamarsi “Assemblea nazionale” si oppone a quella di Mirabeau, che propone il nome di “Assemblea dei rappresentanti del popolo”. La rivalità fra le due mozioni fa scoprire un imbarazzo rivelatore sulla definizione della nazione. In fin dei conti, è la proposta di Siéyès a prevalere, mentre quella di Mirabeau sarà respinta in quanto attentava al diritto della nazione. Ora, per Siéyès, la nazione è un “corpo di associati viventi sotto una legge comune”, corpo rigorosamente omogeneo, il cui fondamento è scisso da ogni determinazione prepolitica. A questo corpo, e solo ad esso, deve essere riferita la sovranità: “La nazione esiste prima di tutto, è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale, è la legge stessa”12. Il 17 giugno 1789, Siéyès fa dunque adottare la denominazione di “Assemblea nazionale” in particolare per il fatto che la rappresentazione della nazione non può essere che “una e indivisibile”. Poiché si ritiene che la volontà generale si formi solo in seno al corpo legislativo, ne deriva che la rappresentazione nazionale è nello stesso tempo la nazione. Fin da questo istante, la sovranità diventa appannaggio della nazione, ed è dall’“alto” che è trasferita all’Assemblea: la nazione corrisponde ormai allo spazio di sovranità collettiva che si incarna nell’Assemblea nazionale. Fondamentalmente, la sovranità rivoluzionaria non proviene dunque all’origine dal corpo elettorale, ma rappresenta un semplice trasferimento della sovranità regia: la nazione è stata detta sovrana, ha rappresentato un fatto compiuto e una legittimità acquisita ancor prima che sia stato discusso lo statuto di cittadino.

La Costituzione del 1791 si spinge ancora oltre, precisando che “la sovranità è indivisibile, inalienabile e imprescrittibile” (titolo III, art. 1). In effetti, nell’agosto 1791, in occasione del dibattito che precedette la redazione finale di questo articolo, una prima versione sottoposta all’Assemblea non attribuiva ancora alla sovranità che la sola qualità dell’indivisibilità. L’inalienabilità fu aggiunta su richiesta di Robespierre13. Il 7 settembre 1791, Siéyès dichiara: “La Francia non deve affatto essere un’assemblea di piccole nazioni che si governano separatamente come democrazie; non è affatto una raccolta di Stati; è un tutto unico, composto di parti integranti”. Per estensione, il 25 settembre 1792 la Repubblica francese è proclamata “una e indivisibile”. I corpi intermedi e le collettività di base si vedono così definitivamente negare ogni legittimità propria. Un anno dopo, la denuncia giacobina del “pericolo federalista” non mancherà di riprendere questa argomentazione. In funzione dello stesso principio, i rivoluzionari cercheranno di far sparire i “dialetti” e chiederanno la soppressione delle vecchie provincie e la loro sostituzione con dipartimenti geometricamente uguali14.

La nozione di popolo riceve parallelamente una definizione totalmente astratta, la sola suscettibile di accordarsi con l’idea di nazione di cui si è di primo acchito affermata la priorità. È la condizione necessaria perché il popolo possa a sua volta essere dichiarato “sovrano”. “Se come realtà oggettiva”, scrive Ladan Boroumand, “il popolo non poteva essere ammesso nella sfera della sovranità della nazione, entità metafisica per eccellenza, la sua metamorfosi in un essere ideale lo autorizza a partecipare alla logica della sovranità nazionale, senza mettere in pericolo l’esistenza trascendente della nazione, incarnata dalla Rappresentazione”15. Ora, quest’ultima è essa stessa concepita come la manifestazione di un principio di unità e “indivisibilità” del popolo, escludente in tal modo ogni idea di popolo formato da comunità particolari ed entità distinte. L’idea di nazione, posta come essere unitario e trascendente la cui unità e indivisibilità sono necessariamente indipendenti da ogni principio esterno, finisce allora per ricoprire la nozione di popolo fino a sostituirvisi, inaugurando una tradizione che il diritto pubblico francese da allora non ha smesso di perpetuare. Insomma, la concezione rivoluzionaria della sovranità rende sinonimi nazionalità e cittadinanza: ormai non c’è più nazionale che non sia cittadino (salvo privazione dei suoi diritti civici), né cittadino che non sia nazionale. Il popolo è tanto più “indivisibile” e unitario in quanto è divenuto una pura astrazione. Perciò la Francia, ancora oggi, non è uno Stato federale e non può riconoscere l’esistenza di un popolo corso o bretone.

Così, sotto la Rivoluzione come sotto l’Ancien Régime, ritroviamo la stessa concezione della sovranità come “potenza assoluta ed eterna” di una repubblica fonte di tutti i diritti e doveri del cittadino. La sovranità dei giacobini non soffre più restrizioni di quella di Jean Bodin. I rivoluzionari denunciano il “federalismo” negli stessi termini che la monarchia assoluta utilizzava, ad esempio, quando rimproverava ai protestanti di voler “accantonare” la Francia ad immagine della Svizzera. Essi scagliano l’anatema e lottano contro i particolarismi locali allo stesso modo in cui il potere regio cercava con tutti i mezzi di ridurre l’autonomia dei feudatari. Per legittimare la giustizia rivoluzionaria, avanzano gli stessi argomenti di Richelieu che difendeva il potere discrezionale del principe. Con la Rivoluzione, la sovranità nazionale si oppone all’assolutismo regio non ricusando l’assolutismo, ma trasferendo alla nazione le prerogative assolute del re.

“Certo”, come scrive Mona Ozouf, “gli uomini della Rivoluzione sembrano rompere con il vecchio mondo inventando una società di individui liberi ed eguali. In realtà, essi hanno ereditato dall’assolutismo un’idea più antica e costrittiva: quella della sovranità della nazione, corpo ritenuto superiore all’ordine degli individui. E questa idea ritrova molto presto la sua efficacia, venendo la sovranità assoluta della nazione ad occupare il posto lasciato vacante dalla sovranità assoluta del re… Lo stesso Terrore, lungi dall’essere l’estrema risorsa di una Repubblica in pericolo, si iscrive nella logica di questo prestito dall’Ancien Régime”16. Il Terrore, infatti, se con ogni evidenza viola il diritto naturale degli individui, non viola affatto i diritti della nazione, che intende al contrario garantire e preservare. “Le somiglianze tra l’assolutismo e il giacobinismo”, scrive ancora Ladaman Boroumand, “si spiegano. Se i riflessi e gli espedienti politici sono gli stessi a monte e a valle dell’89, è infatti perché sono informati da uno stesso principio: la sovranità della nazione”17.

Così, osserva Henri Mendras, “ciò che nel XVI secolo era rivendicazione, è diventato in Francia una dottrina assoluta, un principio intangibile per la monarchia durante due secoli, poi per le Costituzioni dopo il 1791. Questo principio era una finzione giuridica, un’astrazione che si incarnava nel re, principe assoluto; sparito il re, è subentrata la Repubblica”18.

Anche il pensiero politico liberale ritorna su questo momento storico che vede la contraddittoria associazione, nel corpus costituzionale rivoluzionario, dell’affermazione dell’universalità dei diritti dell’uomo e del principio della sovranità della nazione. Ma vi ritorna per effettuare un cammino inverso rispetto a quello che prevalse all’epoca, ossia per trovare nella teoria dei diritti dell’uomo il fondamento di una limitazione della sovranità nazionale o, più esattamente, di un trasferimento della sovranità dalla sfera politica a quella del diritto.

Ad eccezione di coloro che fanno riferimento al positivismo giuridico di Kelsen (che riconduce la vita pubblica a un puro sistema di norme), i liberali, in effetti, non negano, per essere precisi, la nozione di sovranità, ma tendono a toglierla al politico per attribuirla al diritto – e spesso, suo tramite, alla “morale”. In questo essi possono basarsi su Bodin, di cui abbiamo visto la fondamentale importanza che attribuisce al diritto, benché ne abbia tratto conseguenze del tutto differenti.

Un tale percorso è tuttavia viziato in origine, perché, non avendo il diritto la stessa estensione del politico, la sovranità non è un concetto giuridicizzabile. Da un lato, contrariamente a quanto oggi si afferma correntemente, ciò che è moralmente giusto non è necessariamente sinonimo di ciò che è politicamente desiderabile. Dall’altro lato, la capacità di giudicare in ultima istanza non è niente senza la capacità di decidere in ultima istanza e di far applicare questa decisione, la qual cosa il diritto non può di per sé garantire. “C’è un ambito specifico del diritto e un altro della politica che non coincidono”, sottolinea a questo proposito Julien Freund, “di qui possibili conflitti tra i due …Nessun sistema giuridico è in grado di abolire la volontà politica originaria e arbitraria del comando. Questo ragionamento è in sé sufficiente a risolvere definitivamente la questione della giuridicità della sovranità… La ragione giuridica è della procedura, non del potere. In altri termini, l’espressione ‘sovranità del potere’ non ha altro senso che legittimare un potere, non costituirlo”19.

La teoria liberale della limitazione della sovranità mediante il diritto – o dell’attribuzione della sovranità al diritto – procede generalmente di pari passo con un’aspirazione a una gestione puramente razionale e legale dei rapporti umani. La politica è allora squalificata come qualcosa che dipende da una “decisione” sempre irrazionale e arbitraria. La sfera del politico si vede negare la sua autonomia e dunque la sua essenza. Il fatto di appiattire la sovranità prima sul solo potere legislativo, poi sul diritto stesso, sfocia in una “depoliticizzazione” della vita pubblica. In tali condizioni, il titolare nominale del potere è, nel migliore dei casi, solo un esecutore, nel peggiore una comparsa. Allo stesso tempo, si esce dal campo democratico, poiché la volontà del popolo può essere considerata nulla dato che contraddice norme giuridiche e morali ritenute superiori.

Nell’ambito delle relazioni internazionali, si è finito col comprendere che non si può al contempo porre l’uguaglianza delle sovranità politiche nazionali e pretendere di imporre dall’esterno a una di esse un arbitrato che rifiuta. Dalla presa di coscienza di questa contraddizione è sorta la moda attuale del “diritto di ingerenza”, teoria che pretende anch’essa di limitare la sovranità politica con una norma giuridica che rinvia in ultima analisi a dei valori “morali”.

Daniel Cohn-Bendit e Zaki Laïdi hanno così potuto dichiarare che “la sovranità etica è una nuova maniera di pensare la sovranità”, definendosi questa nuova forma come il “rifiuto di vedere un attore appropriarsi della sovranità per perseguire obiettivi contrari alle libertà fondamentali e ai diritti dell’uomo”20. Un tale discorso, ormai regolarmente tenuto per giustificare le “guerre umanitarie”, ossia le aggressioni militari che pretendono di essere “giuste”, pone immediatamente il problema di sapere chi, al di fuori degli Stati sovrani, può concretamente esercitare una limitazione della sovranità politica. Per definizione, possono esercitare un “diritto di ingerenza” solo coloro che hanno i mezzi per ingerirsi. Ma allora, il diritto si trova subordinato al potere, il che è il contrario di ciò che si intende dimostrare. Lungi dallo sparire, la sovranità politica diventa il privilegio di coloro che pretendono di far applicare il diritto.

Carl Schmitt è appunto fra coloro che hanno più fortemente criticato la concezione liberale della sovranità, nella quale lo Stato è sottomesso al diritto e dove la decisione procede esclusivamente dalla discussione, mentre la vita pubblica è nettamente separata da una “sfera privata” largamente depoliticizzata. Schmitt mostra che questa concezione è fondamentalmente antidemocratica, prima perché tende a scoraggiare la partecipazione della maggioranza alla vita pubblica, poi perché ricusa in anticipo ogni scelta democratica che andasse contro norme giuridiche e costituzionali del momento.

Riposando la sovranità giuridico-legale su un insieme di norme e procedure, Schmitt constata poi che, per definizione, le norme e le procedure sono impotenti a dire chi deve decidere nel caso d’eccezione. Interrogarsi sulla sovranità equivale allora a identificare l’istanza che ha la capacità di imporsi in una situazione concreta anche indipendentemente dalla legge. Di qui l’importanza che Carl Schmitt attribuisce alla situazione d’eccezione, perché essa rivela con la massima sicurezza questa istanza: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”21. Nella fattispecie, si tratta di sapere al contempo chi decide che la situazione è eccezionale e chi decide in questa situazione. “Dal momento che l’eccezione sfugge alla regola o norma”, constata Julien Freund, “occorre un’istanza diversa dal diritto per decidere circa la via da seguire. Ora, tali situazioni appariranno probabilmente sempre, soprattutto in quanto sono imprevedibili”22. Da un punto di vista schmittiano, si può dunque dire che non c’è mai interruzione o vacanza della sovranità. Quando un’istanza cessa di essere sovrana, un’altra subito la sostituisce. Quest’altra istanza non è necessariamente statale, ma è sempre al più alto grado politica. Si spiega così come il vero sovrano non sia sempre il “sovrano” ufficiale. Anche l’egemonia, che si esercita in un contesto di potere con effetti spesso esterni al diritto, è una forma di sovranità. Si comprende quindi che nel mondo reale esiste sempre la sovranità. L’abbandono del concetto non ne farà sparire la realtà, ma finirà al massimo con il mascherarla23.

La concezione bodiniana della sovranità ha ispirato successivamente la monarchia assoluta, il giacobinismo rivoluzionario, il nazionalismo statale, l’ideologia repubblicana, i fascismi e i regimi totalitari. Ciò spiega che la si ritrovi oggi professata da famiglie politiche peraltro totalmente opposte: “nazionisti” repubblicani e nazionalisti xenofobi, rivoluzionari e controrivoluzionari, “sovranisti” di destra e di sinistra, avendo tutte queste famiglie in comune il fatto di essere particolarmente legate alla nozione di sovranità e, soprattutto, di credere che la si possa concepire solo alla maniera di Jean Bodin24.

Tuttavia, agli inizi del XVII secolo, Johannes Althusius espone, nella sua opera principale, la Politica methodice digesta(1603), un’idea completamente diversa di sovranità.

Avversario di Bodin, Althusius (1557-1638) si fonda su Aristotele per descrivere l’uomo come essere sociale, naturalmente incline alla mutua solidarietà e alla reciprocità (ciò che egli chiama comunicazione dei beni, dei servizi e dei diritti). La scienza politica consiste per lui nel descrivere metodicamente le condizioni della vita sociale, di qui il nome di “simbiotica” che utilizza per caratterizzare il suo modo di procedere. Rifiutando l’idea di un individuo autosufficiente, egli afferma che la società è sempre prima rispetto ai suoi membri (o “simbioti”), e che si costituisce attraverso una serie di patti politici e sociali conclusi successivamente, risalendo a partire dalla base, attraverso una moltitudine di associazioni (o “consociazioni”) autonome, naturali e istituzionali, pubbliche e private: famiglie e coppie, gilde e corporazioni, comunità civili e sodalizi secolari, città e province, eccetera. Queste “consociazioni” si incastrano le une nelle altre in un ordine che va dal più semplice al più complesso. Gli individui, ad ogni livello, vi stabiliscono relazioni non in quanto atomi individuali, ma come membri di una comunità già esistente che non abbandona mai la totalità dei suoi diritti a beneficio di una società più vasta. Althusius riprende qui la nozione di rappresentazione in un senso totalmente differente dal pensiero contrattualista liberale: in lui il contratto sociale non è un atto unico risultante dalle libere volontà individuali, ma una “alleanza” (foedus) integrante in un continuo processo di comunicazione “simbiotica” individui definiti anzitutto dalle loro appartenenze.

In questa prospettiva, la società globale, cui Althusius dà il nome di “comunità simbiotica integrale”, si definisce come un’organizzazione ascendente di comunità plurali costituite sulla base di associazioni anteriori e di appartenenze multiple, e che dispongono di poteri che si sovrappongono a vicenda. Il corpo politico è il risultato di questo processo di inclusione comunitaria, dove ogni livello trae la sua legittimità e la sua capacità di azione dal rispetto dell’autonomia dei livelli inferiori25. L’azione pubblica tende ad articolare a tutti i livelli la reciproca solidarietà e l’autonomia degli attori collettivi, il cui consenso deve essere reso possibile e organizzato in una dialettica aperta del generale e del particolare – l’idea fondamentale essendo che “ciò che compete a tutti deve anche essere approvato da tutti” (quod omnes tangit, ab omnibus approbetur). Si può qui parlare di “sistema ascendente di federalizzazione consecutiva”26, o ancora di “democrazia consociativa” (Arendt Lijphart).

In Althusius, la sovranità o “maestà” appartiene al popolo e non cessa mai di appartenergli. È imprescrittibile perché risiede inalienabilmente nella comunità popolare, e perché “in una comunità non c’è potere assoluto personale”. Il popolo può delegarla, ma non privarsene. “Il diritto di maestà”, scrive Althusius, “non può essere ceduto, abbandonato né alienato da chi ne è il proprietario… Questo diritto è stato istituito da tutti coloro che fanno parte del regno e da ciascuno di essi. Sono essi a farlo nascere; senza di essi non può essere istituito né conservato”. “Ho riferito alla politica i diritti di maestà. Ma li ho attribuiti al regno, ossia alla repubblica o al popolo”, precisa ancora Althusius, il quale aggiunge di “non curarsi dei clamori di Bodin”.

Lungi dall’essere scissa dal popolo, la sovranità ne emana dunque direttamente. Il principe non occupa la sua funzione che per derivazione dal diritto permanente del popolo ad autogovernarsi. Non ha altra autorità che quella di cui è investito dal popolo, non sotto forma di un trasferimento di potere che il popolo abbandonerebbe a suo vantaggio, ma per delegazione di un potere che il popolo non cessa in alcun momento di possedere intrinsecamente e sostanzialmente. In altri termini, egli esercita il suo potere sotto il controllo del popolo e non può farne uso che al servizio del bene comune, che resta la sua finalità principale27. Dunque non comanda la società come se ne fosse separato o indipendente. Non è il proprietario della sovranità, ma il suo depositario: non gode che dei diritti di questa sovranità. Ritroveremo la stessa idea in Rousseau, ma con una differenza essenziale: mentre Rousseau, che ammette solo una società fondamentalmente unitaria e omogenea, trae dalla sua teoria della volontà generale il rifiuto assoluto di ogni “società parziale”28, il sistema di Althusius si fonda sul rispetto di tutte le appartenenze e la rappresentazione di tutte le identità particolari.

La sovranità, d’altra parte, non è assoluta, ma al contrario ripartita o divisa. Ispirandosi al contempo al modello imperiale, alle antiche “libertà” comunali germaniche e al funzionamento delle associazioni mutualistiche e cooperative delle vecchie città anseatiche29, Althusius prevede che a ogni gradino della società debbano trovarsi due serie di organi, gli uni rappresentando le comunità inferiori, autorizzate a trattenere al loro livello tanto potere quanto possono esercitarne concretamente, gli altri rappresentando il livello superiore le cui attribuzioni sono sempre limitate dalle prime. Ogni livello designa i suoi dirigenti, che sono anche i suoi rappresentanti nel gradino superiore, sulla base di una delegazione di potere che in ogni momento può essere loro ritirata. Essendo le delegazioni condizionali, il potere del gradino superiore riposa sempre sul consenso dei gradini inferiori. Lo Stato è così superiore a ciascuno dei livelli posti sotto di lui, ma non all’insieme formato dalla loro riunione. Il principe stesso, come si è visto, esercita il suo potere sovrano per delegazione, sulla base di un patto reciproco di cui è considerato il mandatario e il popolo (la “comunità simbiotica”) il mandante. Il potere del principe è certo un potere supremo, poiché è quello la cui giurisdizione è più vasta, ma è comunque limitato dall’autonomia delle “consociazioni”, che gli impedisce di attentare ai poteri particolari di cui esse godono. Il principio di sovranità è conservato, ma subordinato al consenso associativo.

La sovranità, in Althusius, non è dunque affatto sinonimo di onnicompetenza, come in Bodin. Essa rappresenta soltanto il livello di potere che dispone delle capacità decisionali ed esecutive più larghe. Il sovrano non è chi può fare tutto a suo piacimento, senza dover rendere conto a nessuno. È chi dispone di un potere più esteso degli altri, ma può usarne solo nella misura in cui questo potere gli è riconosciuto o concesso. A tutti i livelli esiste uno “scambio di sovranità”, ossia una differenziazione delle istanze, una divisione delle competenze che va dal gradino più basso al più alto. Mentre la sovranità bodiniana è al contempo una piramide e una circonferenza la cui superficie è ordinata verso il centro, la sovranità in Althusius è di tipo “labirintico”: riposando sul principio essenziale secondo cui “il vassallo del mio vassallo non è il mio vassallo”, essa implica la pluralità, l’autonomia, l’intreccio dei livelli di potere e di autorità.

Il modello bodiniano ha prevalso a partire dai trattati di Vestfalia (1648), e su questo modello si è costruito lo Stato-nazione, la più tipica forma politica della modernità. Una delle conseguenze di questo stato di fatto è che quanti hanno voluto contestare questo modello, non riuscendo a farsene un’idea diversa da quella formulata da Bodin, e giudicandola implicitamente totalitaria, sono stati spesso indotti a rigettare ogni idea di sovranità.

È il caso di Jacques Maritain, per il quale la sovranità non può concepirsi che come un concetto trascendente in modo assoluto il corpo politico e che si esercita dall’alto separatamente da esso – e che per questa ragione la rigetta. La sovranità, dice Maritain, è incompatibile con la democrazia. Inapplicabile tanto al popolo quanto allo Stato, essa implica che il potere sia sovrimposto al corpo politico o ancora che “assorba” in sé il tutto governato. Si ritrova qui l’immagine della sovranità come principio dell’assolutismo. Di qui questa conclusione: “I due concetti di sovranità e assolutismo sono stati forgiati insieme sulla stessa incudine. E debbono essere rifiutati insieme”30.

I sovranisti commettono oggi lo stesso errore di Maritain. Anche loro ritengono che una sovranità ripartita, divisa o limitata, una sovranità cui si impedisce di dispiegarsi come potenza illimitata, incondizionata e assoluta, non merita il suo nome, ma ne traggono la conclusione opposta. Si pronunciano in favore della sovranità, ma sulla base della stessa definizione.

In realtà, come nota Chantal Delsol, “la sovranità di Bodin sta solo apparentemente in piedi. Nell’attuale situazione, non possiede più né esistenza concreta, né confessabile legittimità”31. L’idea di Stato-nazione, che ha regnato in Europa dalla pace di Vestfalia fino alla prima metà del XX secolo, giunge oggi a compimento, avendone due guerre mondiali già mostrato i limiti. L’erosione dall’alto come dal basso delle capacità dello Stato-nazione segna la fine della modernità, ossia in termini politici l’uscita dall’età vestfaliana32. Finirla con ciò che si è potuto chiamare il “male di Bodin”33 implica dunque non la rinuncia alla sovranità, ma la sua riformulazione in un’ottica nuova, ispirata alle proposte di Althusius.

La sovranità di tipo althusiano ha già ispirato in passato certe costruzioni imperiali o multinazionali. Ne ritroviamo l’eco in teorici dell’austromarxismo come Otto Bauer e Karl Renner, fautori di uno “Stato federativo delle nazionalità”, dove la sovranità si trova ripartita a differenti livelli della vita politica”34. Ma è soprattutto il federalismo ad apparire oggi più suscettibile di tradurre in pratica l’idea di una sovranità strettamente associata ai principi di autonomia e sussidiarietà, secondo la consegna di Jacques Maritain che, essendosi pronunciato fin dagli anni Trenta per l’Europa federale, preconizzava di sostituire alla “statolatria oggi imperversante” il riconoscimento da parte degli Stati di “una relativa autonomia più forte di quella oggi esistente alle comunità più ristrette, alle ‘piccole patrie’ in essi contenute”35.

Vera chiave di volta del sistema di Althusius, il principio di sussidiarietà esige che le decisioni siano sempre prese al livello più basso possibile da coloro che ne subiscono più direttamente le conseguenze. Esso dunque implica che le più piccole unità politiche detengano competenze autonome sostanziali e che siano al contempo rappresentate collettivamente ai livelli più alti di potere. Non si tratta di decentralizzare. Nella decentralizzazione, il potere locale non è titolare che della parte di autorità che il potere centrale gli concede: non rappresenta che una delega di questo potere centrale, che resta il nocciolo sostanziale della vita pubblica in una percezione strettamente piramidale della società. Con la sussidiarietà, il movimento è opposto: il livello locale delega ai livelli superiori solo le responsabilità e i compiti di cui non può incaricarsi, trasferisce a una sfera più elevata solo le competenze che non può assumere, mentre risolve con i propri mezzi tutti i problemi che può effettivamente risolvere, assumendo le conseguenze delle sue decisioni e delle sue scelte. La sussidiarietà rappresenta dunque una divisione di competenze secondo il criterio della sufficienza o dell’insufficienza: ogni livello di autorità conserva le competenze per le quali è sufficiente. Ne risulta, ad esempio, che ogni comunità, piuttosto che vedersi imporre un’offerta standardizzata di beni e servizi, deve poter liberamente decidere da sola circa i beni e i servizi che ritiene corrispondenti alle sue esigenze.

La sussidiarietà è direttamente contrapposta alla concezione bodiniana della sovranità che riposa non sul criterio di sufficienza, ma su quello di capacità superiore. In questo schema, lo Stato centrale non può che esigere tutta l’autorità solo per sé, poiché lo si presume per principio sempre superiormente capace.

La concezione bodiniana è peraltro compatibile sia con un regime dittatoriale che con un regime democratico. Ma in quest’ultimo caso, la sola possibilità che offre ai cittadini è di decidere sulla scelta dei loro rappresentanti. Il principio federalista di sussidiarietà è al contrario incompatibile con ogni forma di dittatura, ed è democraticamente molto più avanzato, perché riconosce agli individui e ai gruppi non soltanto la capacità di scegliere i loro rappresentanti, ma la capacità di partecipare al loro livello alla vita pubblica, decidendo da sé e per conto proprio. “La società francese di oggi è democratica”, nota a questo proposito Chantal Delsol, “ma non è sussidiaria, perché lascia poco spazio all’autonomia d’azione dei gruppi costituiti, preferendo dare fiducia allo Stato centrale per realizzare ciò che è stato deciso democraticamente”36. Il principio di sussidiarietà implica l’autonomia e la responsabilità, mentre la sovranità bodiniana, che riposa su un postulato di diffidenza verso gruppi organizzati, consacra l’eteronomia, l’irresponsabilità e l’assistenza generalizzata.

Più di mezzo secolo fa, ne L’Ordre Nouveau, già si leggeva: “Per incamminarsi verso il vero federalismo, voler partire dallo Stato-nazione come fondamento della società, significa sfociare necessariamente nell’imperialismo e nella statolatria… Solo la formula comunalista si rivela abbastanza flessibile, abbastanza umana per permettere di evitare questi differenti scogli”37. Da un punto di vista sussidiario, la vera unità politica e sociale, anche al di là della regione, è infatti il comune. Henri Mendras giunge alla stessa conclusione: “I francesi mostrano un indefettibile attaccamento alla democrazia diretta: il sindaco è il personaggio pubblico più popolare, come ben sanno gli uomini politici che non vogliono perdere il loro mandato municipale. Dunque, è a partire dal comune che si può ricostruire una teoria della legittimità politica ascendente e non più discendente”38.

In una tale prospettiva, l’esistenza di comunità o gruppi di interessi particolari non ostacola la ricerca del bene comune. È piuttosto l’estensione delle procedure democratiche a impedire alle fazioni di imporsi a scapito dell’interesse generale. La nazione si definisce allora come una comunità di comunità che non soltanto può prendere posto in una comunità più vasta, di tipo sovranazionale, ma le cui comunità particolari possono ugualmente scegliere di avvicinarsi parallelamente ad altre comunità. Mentre il punto di vista giacobino fa della sovranità la garante dell’unità nazionale, il principio di sussidiarietà fa della preservazione della pluralità una garanzia della sovranità. Un’Europa ben concepita, ossia un’Europa federale, non sarebbe dunque il solvente delle sovranità ancora esistenti, ma lo strumento della loro rinascita mediante una sovranità europea pensata e realizzata differentemente.

Note

1         Per un primo approccio storico, cfr. Charles Merriam, History of the Theory of Sovereignty since Rousseau, Columbia University Press, New York 1990; Perry Anderson, Lineages of Absolute State, New Left Books, London 1974; Jens Bartelson, A Genealogy of Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge 1955. Cfr. anche Bertrand de Jouvenel, De la souveraineté, Génior 1955 [ed. it. Giuffrè, Milano 1971]; W.J. Stankiewicz (a cura), In Defense of Sovereignty, Oxford University Press, London 1969; Joseph Camilleri e Jim Falk, The End of Sovereignty?, Edward Elgar, Aldershot 1992; A.H. Chayes, The New Sovereignty, Harvard University Press, Cambridge 1995; Thomas J. Biersteker e C. Weber (a cura), State Sovereignty as Social Construct, Cambridge University Press, Cambridge 1996; Bertrand Badie, Un monde sans souveraineté. Les États entre ruse et responsabilité, Fayard 1999. Il discorso su questo tema è diventato così confuso che la nozione di sovranità è stata talvolta spogliata di ogni carattere politico, come in Patricia Mishe, la quale sostiene che solo la Terra è sovrana (“Ecological Security and the Need to Reconceptualize Sovereignty”, in Alternatives, 14, pagg. 390-391), o Robert Garner, per il quale la sovranità dovrebbe ugualmente essere riconosciuta in certi animali (“Ecology and Animal Rights. Is Sovereignity Anthropocentric?”, in Laura Brace and John Hoffman (a cura), Reclaiming Sovereignity, Pinter, London 1997).

2         Questo è il punto di partenza del dibattito tra la scuola “realista” classica, che definisce la sovranità come “potere centralizzato che esercita la sua autorità su un territorio” (H.J. Morgenthau, Politics among Nations. The Struggle for Power and Peace, Alfred A. Knopf, New York 1948), e la cosiddetta scuola “dipendenzialista”.

3         Alan James, Sovereign Statehood, Allen & Unwin, London 1986; F.H. Hinsley, Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge 1986; Justin Rosenberg, The Empire of Civil Society, Verso, London 1994.

4         Sovereignty, Open University Press, Buckingham 1998. Dello stesso autore: Beyond the State, Polity Press, Cambridge 1995. Cfr. anche Andrew Vincent, Theories of the State, Basil Blackwell, Oxford 1987, pag. 32.

5         Les six livres de la République, II, 2.

6         Ibidem, I, 8.

7         Teologia politica in Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1979, pag. 61.

8         L’essence du politique, Sirey 1965, pag. 118.

9         “A kingdom divided in it self cannot stand”, scrive Hobbes nel suo Leviathan (1651).

10      Cfr. Preston King, Ideology of Order. A Comparative Analysis of Jean Bodin and Thomas Hobbes, Frank Cass, London 1974, pag. 79.

11      La guerre des principes. Les assemblées révolutionnaires face aux droits de l’homme et à la souveraineté de la nation, mai 1789-julliet 1794, Ecole des hautes études en sciences sociales, 1999.

12      Siéyès, Qu’est-ce que le tiers-état? (1788), Droz, Genève 1970, pag. 180.

13      In tal modo, l’Assemblea si allontanava risolutamente dal pensiero di Rousseau il quale, certo, definisce la sovranità tanto attraverso l’inalienabilità quanto attraverso l’indivisibilità (“tutte le volte che si vede la sovranità divisa, ci si sbaglia”, scrive), ma lo fa in tutt’altra maniera. Da una parte, fa risiedere l’inalienabilità non nel potere sovrano esercitato in nome della nazione, ma nel popolo che ne resta sempre il detentore (il che gli permette di ricusare il regime rappresentativo). Dall’altra parte, fa dell’indivisibilità uno dei tratti di un potere sovrano che egli concepisce come essenzialmente omogeneo, mentre i rivoluzionari l’attribuiscono al popolo assimilato alla nazione. “Là dove per Rousseau”, nota Boroumand, “l’esercizio della sovranità è inalienabile, per la Rivoluzione questo esercizio è indivisibile, il che giustifica il suo monopolio mediante la Rappresentazione. E là dove per Rousseau l’estensione della sovranità è indivisibile, per la Rivoluzione questa estensione è inalienabile, il che giustifica una competenza illimitata della sovranità e, pertanto, la fusione dei poteri” (op. cit., pag. 171).

14      Cfr. R. Debbasch, Le principe révolutionnaire d’unité et l’indivisibilité de la République, Economica 1988; Lucien Jaume, Le discours jacobin et la démocratie, Fayard 1999.

15      Op. cit., pagg. 165-166.

Tratto da: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=14506